Un cagnetto speciale

“Signorina, elo questo el cagnèto che vol magnarse tùti gli altri cagnèti?”. Oppure “Scusi, è femm…?”. E puntualmente scatta il pandemonio.

Di solito è questo l’approccio, diciamo così, burrascoso durante le passeggiate di quartiere con Ray, il mio cane a dir poco speciale. Un canovaccio che si ripete tre volte al giorno da nove anni a questa parte.

Ray, 11 anni per 11 kg di nervi tesi, puro meticcio. Certo, direte, potevi mica fare un po’ meglio? Assolutamente sì, tutto è perfettibile, anche nell’educare un cane. Vi assicuro, però, che ce l’ho messa tutta per renderlo un lord a quattrozampe, anche con l’aiuto di specialisti comportamentali, ma purtroppo il suo primo anno e mezzo di vita è stato segnato da un imprinting totalmente sbagliato, per non dire assente. E se consideriamo da dove arriva - per quello che è dato sapersi - c’è da meravigliarsi come, invece, dopo alcune abbaiate convulse e annusate spregiudicate, abbia imparato a sentirsi anche lui un cagnetto come tutti gli altri. Arrivando a giocare insieme, con alcuni addirittura scodinzolando.


Faccio un passo indietro, racconto la sua storia nella speranza che vengano salvaguardate le seconde possibilità a soggetti come lui: non più cucciolo e con la richiesta di un notevole sforzo di comprensione, pazienza e perseveranza.
Ray, come Ray&Cash, i fan di Stallone saranno in visibilio. All’anagrafica canina risulta proprio così: Ray Tango. È il nome che gli venne assegnato dal suo primo proprietario, un ragazzo sardo davvero in gamba che non ha potuto dargli altre chances se non vivere dentro una casa nell’ippodromo di Milano. Le classiche case che assegnano ai fantini incaricati di custodire cavalli anche di un certo valore. Un Varenne, ad esempio. Queste scuderie sono in genere protette da cani addestrati alla guardia, di grande mole. E questo è il motivo per cui Ray, non socializzato e con l’indole frizzantina di un Jack Russell, per un anno ha vissuto in casa con 10 gatti e due musicisti: uno l’adottante, l’altro il mio ex (presto spiegato perché ad un certo punto Ray è arrivato dalle mie bande).


Ma torniamo a noi. Ray in pratica ha vissuto con gatti, in particolare con la sua preferita, la tigratina Cuba, crescendo e comportandosi come un felino. Si sentiva a tutti gli effetti un gatto. I cani erano quindi per lui il nemico, qualcosa di sconosciuto e verso i quali l’istinto suggeriva la fuga o l’attacco, una convivenza impossibile in quel contesto.
La vita dentro quattro mura fu quindi già il ripiego di una piega educativa storta, per non dire tragica. E se avete fatto bene i calcoli, all’appello mancano i primi sei mesi di Ray. Quello che mi è stato riportato è frammentario ma verosimile se sovrapposto alla relazione alquanto complicata che ha con i bambini. Lui i piccoli proprio non può vederli. Anzi, mi tengo bene alla larga da soggetti di non sua conoscenza perché la tendenza è quella di ringhiare e di mordicchiare ogni mano che svolazza sopra la sua testa. Dall’altra non voglio nemmeno che piccole creature crescano con l’idea distorta dei cani come esseri cattivi. Perciò prendo il largo e quando genitori coscienziosi chiedono di avvicinarlo io cerco di spiegare in maniera edulcorata perché è meglio evitare.


La spiegazione è presto detta anche qui. Ray per il primo mezzo anno di vita è cresciuto dentro una gabbietta con altri fratelli, forse due, presi di mira da bimbi a cui non venne evidentemente spiegata la differenza tra un giocattolo e un essere senziente.
Questi cuccioli venivano nutriti, se così si può definire, con ogni tipo di scarto. Inclusa frutta con noccioli. Alcuni di questi pare siano stati fatali ai suoi fratellini. Ray, in sostanza, è l’unico sopravvissuto di questa montagna stratificata di ignoranza sociale che ha trasformato dei piccoli innocenti in aguzzini inconsapevoli.
Il suo salvatore, il musicista sardo, lo ha messo al sicuro a modo suo, proteggendolo con quello che poteva offrirgli: casa sua.
Poi per i due coinquilini arrivò lo sfratto, i gatti sistemati da parenti vari e Ray affidato temporaneamente ad un’associazione che però lo scaricò dopo poco, etichettato come troppo problematico. Pare scavasse delle buche pur di evadere da un’altra, nuova, gabbia.

Tommy, questo il nome del musicista, sommerso anche lui da infiniti problemi, a quel punto non ebbe dubbi. Nonostante ci conoscessimo poco, nonostante fossi l’ormai ex del suo coinquilino, nonostante i 160 km di distanza, un giorno con grande umiltà chiamò per chiedermi la disponibilità ad ospitare Ray per un non-definito periodo. Io ero nella piena baraonda di un trasloco, di un passaggio di vita particolare, con i miei genitori ancora in lutto per il mio primo cane, Rocky (il suo nome, il mio unico tatuaggio). “Cani non ghe ne volemo più”. Abitavo da sola ma il loro aiuto sarebbe stato essenziale, come lo è oggi.


Insomma ho fatto un po’ le cose di pancia, ho preso la macchina, una copertina e sono andata a prendermi quel che rimaneva di un cane. Credo abbia continuato a tremare come una foglia per mesi, le notte con gli incubi. I miei sono capitolati di fronte a quegli occhioni e a quella codina da porcellino. Pian piano Ray è uscito dal suo guscio di protezione per imparare nuovamente a fidarsi, per ritrovare i perimetri di una casa fatta di persone che non lo avrebbero più lasciato e anche di conoscenza del mondo esterno. Nonostante tutto. Le “baruffe chiozzotte” ad ogni uscita, i timpani vibranti ad ogni colpo di campanello, gli ululati alle campane, le immondizie incustodite fatte a brandelli, l’impossibilità di cantare “Tanti auguri” (vietatissimo).


Ray a Milano non ci è più tornato, lo stallo si è formalizzato in adozione. E’ diventato lui il punto fisso sui miei cambi di vita, case (insieme ci siamo fatti tre traslochi), amicizie, frequentazioni. Oggi ha imparato a “dividermi” con Federico e il suo migliore amico con i baffi si chiama Cheddarino. Sembrano l’avatar l’uno dell’altro.


Puntualmente scambio foto e messaggi con Tommy, che a suo modo ha fatto quello che era nelle sue possibilità con la grande consapevolezza che amare, a volte, significa anche lasciare andare.

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